mercoledì 4 novembre 2020

PINA BAUSH




 Tra le più importanti e note coreografe mondiali, la Bausch ha diretto dal 1973 il Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, con sede a Wuppertal, in Germania. Il suo nome è legato al termine Tanztheater (teatrodanza), adottato negli anni '70 da alcuni coreografi tedeschi - tra cui la stessa Bausch - per indicare un preciso progetto artistico che intende differenziarsi dal balletto e dalla danza moderna, che include elementi recitativi, come l'uso del gesto teatrale e della parola, con precise finalità drammaturgiche.

Inizia la carriera artistica da adolescente, esibendosi in piccoli ruoli di attrice nel teatro di Solingen, la città natale. In seguito si trasferisce a New York, grazie ad una borsa di studio. Perfeziona la sua tecnica alla Juilliard School. Successivamente viene scritturata, come ballerina, dal New American Ballet e dal Metropolitan Opera House. Nel 1962, dopo il rientro in Germania, che la vede impegnata ancora come danzatrice, Pina Bausch inizia nel 1968 a comporre le prime coreografie per il corpo di ballo della sua prima scuola, la Folkwang Hochschule di Essen fondata da Kurt Jooss, che dirigerà dall'anno successivo.

Nel 1973 fonda il Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, cambiando nome al già esistente corpo di ballo di Wuppertal. I suoi spettacoli riscuotono fin da principio un indiscusso successo, accumulando riconoscimenti in tutto il mondo. I primi lavori sono ispirati a capolavori artistici, letterari e teatrali, come ad esempio Le sacre du printemps del 1975. Con Café Müller (1978), uno dei suoi spettacoli più celebri, composto sulle musiche di Henry Purcell, si assiste ad una svolta decisiva nello stile e nei contenuti. Mentre le prime opere sono animate da una dura critica alla società consumistica e ai suoi valori, le opere più mature approfondiscono sia il contrasto uomo-società, sia la visione intima della coreografa e dei suoi danzatori, che sono chiamati direttamente ad esprimere le proprie personali interpretazioni dei sentimenti.

Pina Bausch muore di cancro ai polmoni il 30 giugno 2009 all'età di 68 anni.

Il Tanztheater di Pina Bausch

La novità del suo lavoro non consiste tanto nell'invenzione di nuove forme e nuovi gesti, da riprodurre uguali a se stessi, quanto nell'interpretazione personale della forma che si vuole rappresentare, entrambe sostenute dal concetto basilare del rapporto (che è della danza così come di ogni forma di vera arte) tra fragilità e forza. I danzatori sono chiamati alla creazione delle pièces (che Bausch denomina stück) attraverso l'improvvisazione generata dalle domande che la coreografa pone loro[2]. Per questo motivo gli interpreti della compagnia della Bausch vengono spesso denominati con il neologismo di danzattori. Infatti essi non ricoprono solamente il ruolo di danzatori, ma anche quello di attori e di autori dell'opera.

Un altro elemento di novità è costituito dall'interazione tra i danzatori e la molteplicità di materiali scenici di derivazione strettamente teatrale - come le sedie del Café Müller- che la Bausch inserisce nelle sue composizioni[3]. Da citare anche il legame interpersonale che seppe sempre intrecciare coi suoi allievi, basato su un rapporto di reciproco rispetto e di affetto mai gridato ma profondissimo. Lo si evince anche dall'intenso film-documentario Pina dedicatole da Wim Wenders nel 2011[4]e presentato al 61º Festival di Berlino

MERCE CUNNINGUM

 



Merce Cunningham nacque a Centralia (Washington) nel 1919. Dedicatosi da ragazzo allo studio del tip tap, nel 1937 entrò alla Cornish School di Seattle per studiare danza moderna, in particolare tecnica Graham con Bonnie Bird. Dopo aver seguito i corsi di Lester Horton al Mills College di Oakland, completò la sua formazione al Bennington College. Nel 1939 entrò nella compagnia di Martha Graham dove rimase per sei anni distinguendosi per la tecnica e prendendo parte a numerose prime esecuzioni. Parallelamente si dedicò allo studio della tecnica accademica presso la scuola dell’American Ballet. Desideroso di intraprendere un proprio percorso autoriale, negli anni Quaranta iniziò a cimentarsi nella coreografia e a sviluppare una propria ricerca estetica. Fondamentale fu la sua collaborazione con il compositore John Cage, conosciuto durante gli anni di formazione alla Cornish School, con il quale si esibì in una serie di concerti di musica e danza in vari college e auditorium degli Stati Uniti. La loro partnership, durata per cinque decenni, fu tra le più celebri del XX secolo ed ebbe una profonda influenza sugli sviluppi dell’avanguardia americana. Una svolta decisiva nella loro evoluzione estetica avvenne nel 1952 quando, allargata la collaborazione al pittore Robert Rauschenberg, presentarono al Black Mountain College un evento che passò alla storia come il primo happening.


L’impiego dello spazio in Cunningham è antitetico alla focalizzazione prospettica di derivazione rinascimentale del balletto classico viene inteso nella sua policentricità come un campo di possibilità illimitate, in linea con l’approccio a tutto campo dell’espressionismo astratto, movimento artistico statunitense che Cunningham conobbe frequentando i pittori della New York School. Un altro punto chiave del suo stile compositivo è l’innovativo rapporto tra musica e danza elaborato insieme a John Cage: dopo aver prefissato la durata della creazione, coreografo e compositore portavano avanti il proprio processo creativo in totale autonomia per poi unire i propri lavori al momento della rappresentazione. Questo procedimento determinò l’assoluta indipendenza delle due arti e fu dettato dalla coincidenza dei loro obiettivi che consistevano nell’esplorare le infinite possibilità non intenzionali delle proprie arti attraverso il chance method. Fonte d’ispirazione fu il libro cinese I Ching, adottato anche da Cage per comporre le sue prime musiche aleatorie. Il primo lavoro realizzato da Cunningham secondo questo procedimento compositivo fu Sixteen Dances for Soloist and Company of Three (1951), in cui l’elemento variabile fu l’ordine delle sequenze, stabilito seguendo un procedimento aleatorio.

Nel 1953 fondò una propria compagnia, la Merce Cunningham Dance Company, per la quale creò un vastissimo repertorio, a cominciare da Suite By Chance (1953) e finendo con Nearly 90^2 (2009). Per la musica, principalmente elettronica, si avvalse della collaborazione di vari compositori, come David Tudor, Gordon Mumma, Earle Brown e Christian Wolff. Per la parte scenografica si circondò di celebri artisti, quali Robert Rauschenberg (resident designer dal 1954 al 1964) e Jasper Johns (artistic adviser dal 1967 al 1980). Parallelamente condusse una carriera internazionale creando nuove produzioni per le più importanti compagnie, come Un jour ou deux per l’Opéra di Parigi (1973).

Dagli anni Sessanta intraprese con la sua compagnia varie tournée negli Stati Uniti, in Europa e in Estremo Oriente. Una delle più importanti fu quella del 1964, quando a Vienna e a Monaco allestì le sue coreografie all’interno dei musei. Nacquero i suoi Events, performance eseguite non in uno spazio teatrale ma nelle gallerie d’arte, nei campi sportivi e nei contesti urbani. Questi lavori consistevano in frammenti coreografici, tratti dal suo repertorio o da nuove creazioni, che combinava tra loro con diverse modalità poco prima della performance. In conseguenza di ciò le sezioni coreografiche acquistavano non solo un valore autonomo ma anche un nuovo aspetto al variare delle scelte musicali.
Negli stessi anni Merce Cunningham invitò presso il proprio Studio di New York il coreografo e musicista Robert Ellis Dunn, le cui lezioni di composizione e improvvisazione esercitarono una profonda influenza sui futuri artisti del Judson Dance Theater, quali 
Yvonne RainerTrisha BrownSimone Forti e Steve Paxton.

Dagli anni Settanta centrale divenne per Cunningham l'interesse per le nuove tecnologie che iniziò a sviluppare estendendo il campo delle sue collaborazioni: per anni lavorò con i registi Charles Atlas ed Elliot Caplan, realizzando video con attrezzature sofisticate come il chroma key in Blue Studio: Five Segments (1975) e creando opere pensate per il video e adattate al palcoscenico in un secondo tempo come Points in space (1986). Si cimentò anche nella videodanza, realizzando con Nam June Paik Merce by Merce by Paik (1978), opera simbolo di questo genere che combinava elementi coreografici creati appositamente per la telecamera con materiali video preesistenti. Negli anni Novanta iniziò a lavorare con il software Life Forms, quindi con il programma DanceForms, in grado di assimilare l’invenzione coreografica alla sua scrittura e memorizzazione, e i sistemi di Motion Capture, basati sull’acquisizione del movimento umano e sulla sua elaborazione digitale. Creò anche i Mondays with Merce, serie di webcast che offrono uno sguardo sulla sua tecnica che, elaborata nel corso degli anni, combina elementi della danza accademica, come la rotazione del bacino, con elementi della danza moderna, quale la flessibilità del torso.

Prendendo le distanze dalla modern dance, in particolare dalla introspezione psicologica tipica di Martha Graham, elaborò una propria estetica incentrata sulla concretezza di un movimento antiemozionale e antinarrativo che rifletteva la sua concezione della danza come arte formale. Di conseguenza la sua attività coreica costituì un ponte tra la modern dance e la post-modern dance, movimento di ripensamento del concetto di danza e di rifondazione di un’estetica della contemporaneità adeguata ai grandi mutamenti che vanno dal 1960 alla fine degli anni Settanta. Per la radicalità della sua estetica e per la sua filosofia implicita Merce Cunningham è considerato il principale esponente della neoavanguardia di danza.

MARTHA GRAHAM




 Tra il finire dell’800 e l’inizio del ‘900 la danza fu travolta da un’inaspettata rivoluzione: quella che da molti viene definita come la “riscoperta del corpo“.

Dramma, parola e musica si fondevano in un unico atto, in una grande celebrazione di un mito di antica memoria: la danza.

L’arte del danzare riscopriva la sua originaria funzione sacrale, e al tempo stesso sociale. Quel groviglio di sentimenti ed emozioni racchiuse all’interno di ognuno noi raggiungeva la sua massima espressività attraverso il movimento del corpo.

Lo spettatore attonito ne osservava la fuoriuscita cercando di comprenderlo, emozionandosi e riscoprendo anche il proprio essere.

Tale concezione fu alla base della danza moderna. Gli interpreti illustri di questa disciplina sono innumerevoli, e probabilmente si ritrovano tutti un pò in debito con la protagonista della nostra storia di oggi: Martha Graham, da molti considerata la madre della danza moderna.

Biografia di Martha Graham

Martha Graham nacque nel maggio del 1894 a Pittsburgh negli Stati Uniti.

Il padre, George Graham, svolgeva la professione di medico, e probabilmente la influenzò molto su quelle concezioni delle funzioni del corpo, che applicò successivamente al suo particolare stile di danza.

Il dottor Graham era specializzato nella cura dei disturbi nervosi ed era fermamente convinto che il corpo non fosse una semplice espressione del movimento, ma celasse significati molto più profondi.

L’amore per la danza di Martha Graham scoppiò in adolescenza durante  una rappresentazione teatrale di Ruth St. Denis. Ne rimase folgorata.

L’influenza della Denishawn School

Ruth St. Denis oltre ad essere una celebre ballerina, nel 1915 con Ted Shawn fondò la Denishawn School.

Martha Graham studiò qui fino al 1920. La Denishawn School si differenziava dalle altre scuole soprattutto per il fascino di un certo influsso orientale.

L’obiettivo della scuola era andare oltre i dettami della danza classica, la quale pur sempre rimaneva la base di partenza. Al classico allenamento alla sbarra venivano affiancate tecniche di yoga e lo studio dei movimenti delle danze orientali.

Alla Denishaw, Martha entrò anche a far parte della compagnia della scuola e danzò in alcune importanti coreografie.

Durante il suo periodo di studio e allenamento conobbe Louis Horst, un compositore di qualche anno più grande di lei. Tra i due iniziò un sodalizio artistico ed insieme abbandonarono la scuola nel 1923.

Si trasferirono a New York, dove Martha Graham contemporaneamente insegnò in una scuola e creò le sue prime coreografie.

La stessa Martha ricordò così il suo debutto sul palcoscenico della Grande Mela:

Il primo concerto venne tenuto al Teatro della 48a Strada. Danzai assoli su musiche di Schumann, Debussy, Ravel e altri. Louis Horst mi accompagnava. […]Danzai molti pezzi, ed ogni cosa che facevo era influenzata dalla Denishawn. C’era pubblico. La gente venne perché rappresentavo una curiosità: una donna che rappresentava il suo lavoro

La Martha Graham School of Contemporary Dance.

Il 1927 segnò l’anno della maturità artistica per Martha Graham. Dopo quasi un ventennio di studi ed esibizioni, arrivò il momento di camminare da sola nell’impervio mondo della danza: apriva i battenti la Martha Graham School of Contemporary Dance.

Fu un periodo di grandi sperimentazioni ed innovazioni.

MISE APPUNTO LA SUA TECNICA CHE SI BASAVA SULLA PRINCIPALE FUNZIONE DELL’UOMO: IL RESPIRO.

Ogni movimento del suo stile prendeva origine dal bacino, perché è proprio da lì che parte la respirazione umana.

Furono anni molto proficui, e dalla sua scuola presero forma successi indimenticabili per gli esperti del settore come Death and Entrance (1943), Appalachian Spring (1944), Dark Meadow (1946) e Errand into the Maze (1947).

E come non ricordare Night Journey, capolavoro del 1947, in cui Martha Graham portò in scena una tragedia di Edipo. Non fu una semplice trasposizione, ma qualcosa in grado di andare oltre una mera rappresentazione.

La coreografia ideata da Martha Graham produceva attraverso le movenze dei ballerini un crescendo di sentimenti contrapposti che si intersecavano in un vortice capace di frastornare il pubblico facendoli riscoprire il senso originario del termine “tragedia”.

Non tutta la critica del tempo fu concorde nel considerare insuperabile lo stile di Martha Graham, ma tutti riconobbero il grande contributo dato da quest’artista al mondo della danza contemporanea.

Ancora oggi molti coreografi risentono dell’impatto dei suoi insegnamenti, e durante la sua lunghissima carriera fu fonte d’ispirazione per moltissimi artisti.

In  questa lunga galleria si annoverano miti della danza come Nureyev e Baryshnikov, ma anche altre star che non furono propriamente ballerini o ballerine, come ad esempio Madonna e Gregory Peck.

Ciò dimostra quanto l’arte di Martha Graham come un fiume in piena esondò dal “letto” della Danza per riversarsi su un piano culturale molto più ampio.

Amava sostenere che la danza rappresentasse lo spirito della società che la circondava. Non a caso il suo stile era tumultuoso come la sua America, un paese scosso da una molteplicità di etnie e punti di vista, colmo di tensioni politiche e sociali sempre sul punto di esplodere, ma al tempo stesso capaci di una produzione culturale inesauribile.

E cosa c’era di meglio se non l’universale linguaggio del corpo per esprimere tutto questo?

L’abbandono delle scene

Calcò i palcoscenici in veste di danzatrice fino all’età di 76 anni, e l’interruzione dell’attività fisica le provocò un lungo periodo di depressione.

Ricordò così quel momento: “L’ultima volta che danzai fu in Cortege of Eagles. Avevo 76 anni. Non avevo programmato di smettere quella notte. Fu una decisione penosa quella che sapevo di dover prendere.”

Ottenne numerosi riconoscimenti. Dopo aver ballato alla Casa Bianca davanti a ben 7 presidenti partendo da Roosvelt, nel 1976 Gerald Ford la insignì con la medaglia presidenziale della libertà. Betty, la moglie del presidente, in gioventù aveva fatto parte proprio della compagnia della Martha Graham School.

Nel 1984 ricevette la legione d’onore dal governo francese.

Morì nel 1991 lavorando sul suo amore più grande: la danza. Stava perfezionando un balletto dal nome “The Eye of Goddess”, che sarebbe andato in scena l’anno successivo per l’apertura dei Giochi Olimpici di Barcellona. Aveva 96 anni.

Maria Taglioni e la tradizione del balletto romantico.

 

                  Maria Taglioni
                  

Stoccolma 1804 - Marsiglia 1884

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Reputata la maggiore ballerina del XIX secolo, ballerina per antonomasia del movimento romantico, Mariana Sophia Taglioni nasce a Stoccolma il 24 aprile 1804. La sua è una dinastia di artisti: il padre Filippo Taglioni, figura determinante per la carriera di Maria, è in quegli anni primo ballerino e maître de ballet al Teatro Reale di Stoccolma, la madre, Sophie Karsten, è pittrice e ballerina del Balletto Reale Svedese, i nonni materni, Christoffer Karsten e Sophie Stebnowska, sono cantanti lirici della Swedish Royal Opera all’epoca molto noti, mentre quello paterno, Carlo Taglioni, è un danzatore di origine torinese molto apprezzato dai suoi contemporanei. Anche gli zii, sia del ramo materno che di quello paterno, sono valenti artisti. Lo è Elisabeth Charlotta Karsten, paesaggista e pittrice di gouache, lo sono Giuseppina, Luisa e Salvatore Taglioni, tutti rappresentanti dell’arte coreutica. Salvatore, in particolare, oltre che provetto ballerino, è anche un rinomato coreografo come Paolo Taglioni, fratello di Maria. Entrambi sono sposati con altre famose stelle della danza, l’uno con Adelaide Perrault, spesso riportata nelle locandine come Anna Parraud Taglioni, l’altro con Amalia Galster Taglioni.
La prima formazione di Maria avviene con Jean-François Coulon a Parigi, dove ella, adolescente, si era trasferita con la madre. In seguito, Maria viene chiamata a Vienna dal padre che le aveva fatto ottenere una scrittura come première danseuse al Theater am Kämtnertor, il teatro dove egli ricopre a quel tempo gli stessi incarichi svolti in precedenza a Stoccolma. All’arrivo della figlia, Filippo deve però rendersi conto che ella, per quanto abbia fatto molti progressi, non è ancora pronta per quell’incarico (così come del resto espresso da Coulon) e perciò comincia a sottoporla a sedute di lavoro massacranti[1] .I risultati sono prodigiosi, così che il 10 giugno 1822 arriva per Maria il momento del debutto viennese, all’Hoftheater, in una coreografia del padre, La Réception d’une jeune Nymphe à la cour de Terpsichore, con musica di Gioacchino Rossini. Con essa Maria si conquista un ingaggio per due anni. Durante la permanenza nella città asburgica, ella ha modo di assistere, il 31 dicembre 1823, al debutto viennese di Amalia Brugnoli che lì presenta un modo innovativo di far uso della tecnica delle punte, tecnica già in nuce nelle esibizioni offerte in precedenza da altre ballerine, da Maria Camargo a Fanny Bias, da Geneviève Adélaïde Gosselin a Elisa Vaque-Moulin. La particolare tecnica delle punte attrae Maria e, ancor più, suo padre che ne intuisce la forza dirompente rispetto alla tradizione e, trasformandola da tecnica puramente virtuosistica ad aspetto sostanzialmente espressivo, la pone alla base di un nuovo stile di danza, quello romantico, fondato su moduli innovativi tra i quali anche la particolare postura delle ballerina con il corpo allungato in avanti detta «ad agio» – per indicare con tale locuzione che la ballerina fosse in quella postura a proprio agio, cosa peraltro certo non vera – il principio dell’elevazione e la peculiare modalità di ballare definita “aerienne”.
Dopo il successo viennese, per Maria si concretizzano, sempre grazie ai buoni uffici paterni, brevi stagioni a Monaco e Stoccarda, prima che ella approdi al suo nuovo palcoscenico che sarà quello parigino dell’Opéra. Qui, dopo alcune apparizioni di prova (normalmente richieste secondo gli usi di questo teatro), arriva il debutto ufficiale, il 23 luglio 1827, in Le Sicilien, una coreografia di Monsieur Anatole (Auguste-Anatole Petit) nella quale Maria balla, insieme al fratello Paolo, una creazione del padre su un assolo di violino di Joseph Mayseder. L’esibizione le vale il favore della critica che saluta in lei la nuova Gosselin e, con decorrenza dalla primavera successiva, un allettante contratto come sostituta che si trasformerà dal 1829 in quello di premier sujet. Tra le esibizioni di quest’anno sono degne di nota il ruolo di una Naiade nel balletto La Belle au Bois Dormant, con musica di Ferdinand Hérold e libretto di Eugène Scribe, e il pas tirolienne nel divertissement del Guglielmo Tell su musica di Rossini e coreografie di Jean Aumer.
Del 1830 si ricordano alcune sue importanti esibizioni: il pas di Niuka (coreografato dal padre), personaggio minore del balletto Manon Lescaut di Aumer su libretto di Scribe e musica di François Halévy, e il ruolo di Zoloé per Le Dieu e la Bayadère, opera-ballett di Taglioni padre da un soggetto di Scribe (tratto da una ballata di Wolfgang Goethe) su musica di Daniel Auber. Per quest’anno è anche da segnalare il debutto londinese della Taglioni al Covent Garden nel balletto Flore et Zéphire di Charles Didelot al fianco di Jules Perrot. E proprio con Perrot, la Taglioni nello stesso anno trionfa a Parigi, all’Opéra, in un pas de deux di Pierre Gardel nel Fernando Cortez. Nonostante i ripetuti successi di questo biennio, sono i due anni seguenti, però, quelli trionfali per Maria e, insieme, quelli fondamentali per la nascita del balletto romantico. Il 1831 assicura a Maria un nuovo, vantaggioso contratto che la lega all’Opéra fino al 1837 (fautore Louis Désiré Véron, direttore del Teatro) e regala, al contempo, al pubblico parigino la possibilità di apprezzare la leggerezza e lo stile etereo tipici delle sue esibizioni nel Ballet des nonnes (Balletto delle Monache), coreografato dal padre e inserito nel terzo atto dell’opera Robert le Diable di Giacomo Meyerbeer (secondo lo schema tipico del grand opéra francese), dove ella balla nel ruolo della protagonista, la badessa Helena. Acclamazione piena per Maria e, insieme, due grandi novità per il balletto: da un lato la forma del divertissement (veste tipica fino ad allora del balletto del terzo atto del grand opéra) lascia il posto ad un’azione danzata parte integrante della trama dell’opera (dalla quale non risulta più essere slegata, come fino ad allora), dall’altro la levità della ballerina che, insieme con l’ambientazione spettrale e soprannaturale, rende questo balletto un prototipo del cosiddetto atto bianco (che sarà in seguito creazione coreografica caratteristica del balletto romantico). Dunque una sorta di prova generale del nuovo stile di danza che, l’anno seguente, con una nuova coreografia di Filippo Taglioni su musica di Jean Schneitzhoeffer, La Sylphide[2], raggiungerà la sua definitiva affermazione, consegnando Maria, con l’interpretazione del ruolo principale (per lei appositamente creato), alla fama internazionale. Raggiunta la consacrazione, ella danzerà ancora alcuni anni all’Opéra, mettendo anche a segno alcuni buoni successi, pur senza eguagliare mai il trionfo de La Sylphide: tra essi, quello che Maria riscosse danzando il ruolo principale in Nathalie, ou la laitière Suisse, una coreografia in due atti del padre nella quale ella riesce, per la prima volta, a dare una buona prova anche nell’arte pantomimica che, fino ad allora, le aveva sempre difettato. È il 1832 e in questo stesso anno la Taglioni vive un’importante parentesi londinese: al Covent Garden ripete il successo de La Sylphide e sposa il Conte Gelbeit de Voisins. Un’unione infelice, questa, destinata a durare solo tre anni, dalla quale, tuttavia, nasceranno due figli: Paolo e Eugénie Marie Edvige. L’anno seguente, per l’Opéra, Maria crea il ruolo di Zuma nel balletto La Révolte au Serail, nuova versione di una vecchia coreografia di Filippo Taglioni completamente rimaneggiata dallo stesso che ne firma anche il libretto. Nell’esibizione all’Opéra particolarmente apprezzato dal pubblico è il pas de deux che Maria balla con Perrot, in verità soprattutto per l’interpretazione di quest’ultimo. I due anni successivi non sono forieri di gloria per la Taglioni: nel 1835 l’insuccesso saluta la sua interpretazione nel ruolo principale del balletto Brézila, ou la tribù des femmes (coreografia del padre) e nel 1836 ella si trova a dover sperimentare il dissenso della critica per la sua interpretazione del ruolo di Fleurs de Champs nel balletto pantomimo in due atti e quattro scene La Figlia del Danubio, ennesima coreografia paterna su soggetto di Eugène Desmares, con musica di Adolph Adam. La consapevolezza della fine del suo momento d’oro parigino non meno di quella dell’avvicinarsi della scadenza del contratto che la lega all’Opéra, fanno decidere Maria ad allontanarsi da quel palcoscenico e ad accettare, insieme al padre, un nuovo ingaggio a Pietroburgo, al Bolscioi. Nella città russa, nel corso di un quinquennio, Filippo e Maria riproporranno tutte le coreografie che li avevano resi celebri presentando, al contempo, nuovi balletti, tutti ripresi in seguito a Londra. Tra le nuove creazioni, a Miranda (su musica di Auber e Rossini) del 1838 fa seguito nello stesso anno La Gitana (musica di Daniel Aumer e Johannes Schmidt per questa coreografia nella quale è da ricordare la cachuca, una danza di carattere lontana per stile dagli abituali ruoli eterei della Taglioni), l’anno successivo L’Ombre (musica di Ludwig Wilhelm Maurer per questa creazione, esempio del ballet-blanc romantico d’ispirazione fantastica, del quale rimane celebre il Pas de l’Ombre in cui la protagonista tenta invano di afferrare la propria ombra), nel 1841 il divertissement Aglaé, ou l’Élève d’Amour (musica di Johann Friedrich Keller) e, infine, nel 1842, l’addio alle scene del Bolscioi con Gerta Regina degli Elfridi.
Durante il periodo russo la Taglioni, oltre che a Londra, si esibisce, tra altre città, anche a Vienna (con 42 clamorose riprese de La Sylphide) e a Milano (superba la rappresentazione scaligera nella primavera del 1841 de La Sylphide). Ed è proprio nella città meneghina che nasce un vero e proprio partito “taglionista”, partito dei sostenitori di Maria (interprete eterea e spirituale), in opposizione a quello “cerritista”, schierato con Fanny Cerrito, interprete carnale e sensuale. Del resto, largo è il consenso suscitato da Maria nel pubblico, come già era apparso chiaro nel 1837, al momento dell’addio alle scene francesi e del successivo arrivo a Pietroburgo, dove gli appassionati avevano sostato per ore all’ingresso del Bolscioi solo per la speranza di poterla vedere e dove, durante gli anni in cui Maria si esibisce in quel teatro, scoppia una vera e propria “taglionimania” in virtù della quale sia vari generi di articoli (dai dolci al caffè, ai vestiti), sia le acconciature femminili prendono il suo nome in una sorta di idolatria, di ammirazione delirante, così come era già successo in precedenza e come succederà in seguito per altri ballerini[3]. Ormai a metà degli anni Quaranta dell’Ottocento, la Taglioni, ultraquarantenne, si avvia alla conclusione della carriera che sarà segnata dall’interpretazione a Londra, allo Her Majesty’s Theatre, di due divertissement: il 1845 è l’anno di quella coreografia di Perrot (musiche di Cesare Pugni) che sarà l’acme del balletto romantico, il Pas de quatre (a danzarlo con la Taglioni ci saranno la Cerrito, Carlotta Grisi e Lucile Grahn) mentre il 1847 è la volta de Le jugement de Paris (altra coreografia di Perrot, sempre su musica di Pugni, con Arthur Saint-Léon, la Cerrito e la Grahn) che, danzato la sera di sabato 21 agosto, con il personaggio di Vénus, sarà l’addio alle scene della Taglioni.
Dopo alcuni anni trascorsi a Como nella villa dei genitori, nel 1860 Maria è di nuovo a Parigi dove si prova un’unica volta nelle vesti di coreografa con il balletto Le Papillon (musica di Jacques Offenbach) per la sua allieva prediletta Emma Livry e dove sarà per un decennio “inspectrice des classes et du service de la danse” all’Opéra, instituendo un metodo di esami ancora oggi in vigore in quel teatro. Andata incontro, in seguito ad erronee speculazioni paterne, al tracollo finanziario, la Taglioni si trasferisce prima a Londra (dove per vivere lavora come “insegnante di danza da sala e di buone maniere”) e infine a Marsiglia dove trascorre gli ultimi anni. Maria riposa nel Cimetiere du Père-Lachaise a Parigi.

NOTE

1. «Più di due ore io dedicavo a ciò che chiamerò degli aplombs o adagio: reggendomi su un piede, prendevo delle pose che dovevo poi sviluppare con molta lentezza. Quando la posa era particolarmente difficile, cercavo di mantenerla contando fino a cento prima di cambiarla…..Queste pose vanno eseguite in punta di piedi, sollevando cioè il tallone in modo che non tocchi terra……Bisogna poi far ruotare il busto con molta grazia, con aplomb e sicurezza. Avevo raggiunto una grande perfezione in questo tipo di esercizi…..Ricorrevo a tali pose quando avevo bisogno di un po’ di riposo, mentre per gli altri ballerini esse rappresentano generalmente una fatica… Impiegavo altre due ore a saltare…..Prima di farlo effettivamente bisogna rendere elastico il collo del piede e i tendini…..Mi piegavo lentamente e il più profondamente possibile, in modo da toccare terra con le mani, senza curvare il dorso, solamente piegando le ginocchia e tenendomi molto dritta; mi rialzavo poi lentamente senza scosse e senza sforzo fin sulla punta dei piedi…..Poi cominciavano i veri e propri salti. Lo slancio deve partire unicamente dal tallone, senza alcun movimento del corpo. Le ginocchia devono appena piegarsi… In tutte le pose mi tenevo dritta senz’essere rigida, non mi si sentiva ricadere perché era sempre la punta del piede che arrivava prima e il mio tallone posava a terra lentamente» (da Mes souvenirs, testo di autore ancora incerto, ma da molti ritenuto autobiografico, conservato a Parigi, alla Bibliothèque- Musée de l’Opéra della Bibliothèque nationale de France).
2. È questo il balletto nel quale inizia a prende forma quello che diventerà poi il simbolo per antonomasia della ballerina classica, il tutù. Il costume, concepito (insieme alle scarpette rosa da punta e all’acconciatura à bandeaux) da Eugène Lami proprio per l’esibizione della Taglioni in questo balletto, ebbe all’inizio la lunghezza della gonna fino alle ginocchia e solo in seguito fu accorciato e prese il nome con il quale è passato alla storia.
3. Nel 1793, a Vienna, in seguito alle esibizioni di Salvatore Viganò e di sua moglie, Maria Medina, tutto era alla Viganò (dal minuetto beethoveniano, appunto alla Viganò, ispirato a una danza della coppia, ai più prosaici sigari, caffè, vestiti e acconciature) o ispirato alla loro vita (così la moda della pancia finta quando la Medina rimase incinta) o come già nel 1771, a Parigi, dove il vestito indossato da Marie Madeleine Guimard durante un balletto divenne la moda dell’anno o come accadrà nel XX secolo quando si creeranno la torta e il profumo Pavlova in omaggio alla grande popolarità di Anna Pavlova..

lunedì 2 novembre 2020

2020: Gli allievi della Talent school e i meeting sulla danza...




2020_laboratori:

"Danzo perché?" 

Alcuni allievi esprimono i loro pensieri, liberi di vedere la danza secondo varie prospettive. Racconti profondi sulle sensazioni che provano danzando:



_TALENT SCHOOL DI RARY LO_
Allieva: MARTINA DISTANI




 Tutti conoscono la frase “chi bello vuole apparire, un po’ deve soffrire”. 

Nella mia vita ho sempre cercato di portare la mia idea di bellezza nei contesti, nelle cose, nelle persone e nelle azioni che vivo. Credo che sia un argomento così soggettivo e misterioso che potrei stare ore a parlarne. In questa frase,al concetto della bellezza,viene legato proporzionalmente il concetto di sofferenza. Sofferenza deriva dal latino “sopportare,avere pazienza”, ed è qui che nasce la mia meraviglia. Quando cerco la bellezza, la cerco con cura, con attenzione,dettaglio. Cerco di non tralasciare indietro mai niente, ci metto lavoro,impegno e pazienza per raggiungere il mio punto ideale di bellezza. Ma dove trovo io il massimo splendore di quest’ultima? Nella danza. 

Danza per me è bellezza e sofferenza. E tantissime altre cose che sinceramente, a parole, non riesco ad esprimere. Se potessi, qua sopra, non scriverei, ma danzerei, così che non sarei costretta a limitare la danza in un concetto fatto solo di parole. Bellezza.. associo la bellezza alla danza perché è così che mi sento, BELLA. Vedere il mio corpo muoversi, sentire le vibrazioni sfiorarmi la punta del cuore, entrare in collisione con la musica, mi fa sentire viva, appagata e bella. Non c’è momento più bello di quello in cui danzo. 

La danza è stronza però. In senso buono, che non si offenda, abbiamo un legame speciale quindi spero la prenda sul ridere. Si è stronza perché a volte mi pare irraggiungibile. La vorrei sempre con me, vorrei facesse parte della mia vita a colazione, pranzo e cena, ma è davvero difficile raggiungere questo scopo. È proprio una sofferenza. Sia in senso buono che in senso cattivo. Ci sono delle volte in cui mi arrabbio così tanto con lei, poiché non riesco ad entrarci in connessione, che mi devo girare e sbollire. A tal punto che quasi voglio chiuderci perché mi chiedo “ma chi me lo fa fare”.Ci sono delle volte,invece, in cui litighiamo così forte che ci sentono tutti quanti. A volte vince lei, a volte vinco io. Le pirouette sono delle vere bastarde, mi chiedo, vi costa così tanto essere più gentili nei miei confronti? Io ci metto tutto il mio per stargli simpatiche, ma a volte sono davvero cocciute. È sofferenza, con la danza bisogna avere tanta sopportazione, tanta pazienza, tanta dedizione. E non è da tutti. Va coltivata, arricchita e considerata ogni giorno della propria vita. È una tipa tosta,difficile da conquistare. E io sono così innamorata della danza che anche quando fa la stronza, la affronto. Perché fa parte di me nei suoi 360° gradi. Nel periodo che stiamo vivendo quest’anno sento come se la danza volesse uscire e gridare così forte da far vibrare il mondo intero. Se mi manca? È a dir poco un eufemismo. Mi manca soffrire per lei, mi manca ridere con lei, mi manca spaccarmi la schiena per lei. A la cosa che mi manca di più della danza è una delle sue caratteristiche più peculiari, l’equilibrio. Dolce equilibrio, ancora devo far pace con lui. Risolveremo prima o poi, me lo sento. Ma mi manca soprattutto vivermela come dovrebbe essere vissuta: libera. Senza confini nè restrizioni, vivermela in una sala da ballo, con le mie compagne, stare ore ed ore in stretta connessione con lei senza pensare a nient’altro.

Ora sono incazzata, si, perché vorrei tornare indietro nel tempo e cancellare tutto quanto. Fare finta che sia un brutto sogno. 

Sono sicura che prima o poi ritornerà tutto come prima, così che gli amati si possano rincontrare come si deve.

Per ora, mi limito a vivere la mia danza all’interno delle mia quattro mura. Perché anche nei momenti di difficoltà, nel bene o nel male, c’è sempre e solo lei.

Però pensate ad un mondo senza danza. Un solo secondo. Provate a chiudere gli occhi e immaginare che non esista.

No, impossibile. Automaticamente è come se non pensassi più.

Tutto buio e grigio.

No no, preferisco l’arcobaleno.

Tornerà a splendere, la bellezza lo fa sempre.






Giulia Impellizzeri ; scrive: DANZA


All’età di tre anni non facevo sport, ero piccola, molto piccola, eppure avevo già capito che cosa mi avrebbe accompagnata per il resto della mia vita. La tv era sempre fissa sullo stesso canale: quello di “Angelina ballerina”, un cartone animato ambientato nel mondo della danza. Non me lo levavo dalla testa, era tutto ciò che volevo. Volevo imparare qualcosa di nuovo, qualcosa che mi avrebbe cambiato la vita e così, dopo aver supplicato mia madre, iniziai il corso base di danza classica; fu amore a prima vista. Col tempo purtroppo capii che i rond de jambe e le piruettes non facevano più per me. Cambiai scuola di danza per iniziare il corso di “moderno”, molto simile allo stile precedente solo più movimentato: in parole semplici, da quello che riesco a spiegare verbalmente, nella danza moderna l’improvvisazione può diventare qualcosa di unico. Per ognuno di noi, l’inizio di un cambiamento non è facile, infatti anche per me non è stato semplice. Soprattutto quando l’insegnante metteva una base musicale e noi dovevamo cercare di spiegare quello che sentivamo dentro, con il nostro corpo. Non sapevo bene come si facesse ma, dato che sbagliando si impara, col tempo sono riuscita a trasmettere qualcosa muovendomi. Dopo tre anni, pur sapendo ballare, non provavo più niente. Ho provato a riempire il vuoto che sentivo con la ginnastica artistica; non è servito a nulla. Non si usava la musica e avevo sempre la tremenda paura di potermi fare male. A causa del covid ho smesso, non ce la facevo più, mi mancava tutto quello che da piccola desideravo e l’avevo messo da parte. Sono ritornata a ballare e credo che non smetterò mai, fa troppo male. La questione “Corona Virus” esiste ancora ed hanno chiuso palestre, scuole, piscine… pensandoci non esiste un giorno che io passi senza ballare, impossibile; a volte ballo perfino quando dormo. Un punto di riferimento potrebbe essere Rudol’f Nureyev di cui una frase mi ha colpita molto:” Ogni uomo dovrebbe danzare tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare.” Questa frase mi ha fatto capire che tutti noi possiamo fare qualsiasi cosa, non serve essere professionisti perché nessuno nasce perfetto. Per me i veri ballerini sono quelli che tornano a casa con i piedi distrutti e, nonostante ciò, continuano a fare quello per cui sono nati: danzare.


Alcuni allievi invece si sono voluti confrontare con una ricerca libera e trarre ispirazione da esso:


ALLIEVA: Gaia
ricerche e studio:

OHAD NAHARIN

 


Dal 1990 ohad naharin è direttore artistico della batsheva dance company.

Lo stile e la tecnica gaga, è distinto per la sua flessibilità del busto e degli arti, da movimenti profondamente interdipendenti e da esplosioni, come cadute improvvise.

 

Batsheva dance company:

Dal 1990 ohad naharin è direttore artistico della batsheva dance company.

Lo stile e la tecnica gaga, è distinto per la sua flessibilità del busto e degli arti, da movimenti profondamente interdipendenti e da esplosioni, come cadute improvvise

Il linguaggio gaga

Durante la direzione della Batsheva Dance Company, Naharin ha sviluppato il suo personale linguaggio del movimento, come lui dichiarò, "Per far comprendere meglio la sua opera ai ballerini".

Gaga nasce dalla convinzione di Naharin che "il piacere fisico dell'attività fisica fa parte dell'essere vivo" e la connessione tra lo sforzo e il piacere attraverso il movimento.

Gaga, prima parola pronunciata da Ohad, non vuol essere tanto una codifica del movimento, ma uno stile per enfatizzare l'esperienza somatica del praticante. Far esprimere i propri instinti animali.[6] Molti hanno notato che le lezioni di Gaga sono costituite da un insegnante che conduce ballerini attraverso una pratica improvvisata che si basa su una serie di immagini descritte dall'insegnante. Naharin spiega che questo tipo di tecnica spinge i ballerini ad oltrepassare il limite della famigliarità[











ALLIEVA: ERIKA SCHIFANO

ROMANZA  UNA STORIA CHE RIFLETTE UN PENSIERO MOLTO ATTUALE E COMUNE TRA I GIOVANI, DOVE PER FORTUNA TROVANO RIFUGIO E RIPARO NELLA DANZA PER SUPERARE PROBLEMATICHE CHE PARTONO DALL' ADOLESCENZA E CHE CI FANNO DIVENTARE ADULTI.



DIVERRAI DIAMANTE:

Eravamo sedute sulla scalinata del suo cortile, faceva molto caldo quel giorno
<Perché danzi?> le chiesi all'improvviso. Ogni volta che pongo questa domanda non so mai cosa l'altra persona potrebbe rispondere... Ci sarebbero così tante risposte da poter dare, eppure sembrerebbero tutte banali... 
"Io danzo per passione"    "io danzo perché mi diverte"    "io danzo perché sono cresciuta con la musica e il mio corpo ormai ne è assuefatto" 
Non lei... 
<Io danzo per insoddisfazione.> mi rispose.
Quella risposta mi stupii. Le chiesi di spiegarsi meglio...
<Sono sempre stata una bambina solare, già dalle elementari. Ero la classica bambina che a ricreazione dopo merenda si divertiva, nel cortile di scuola, a giocare con i compagni a Nascondino o a rotolarmi nell'erba. Mi divertivo a stare con gli altri bambini, mi piaceva scherzare e ridere di gusto con loro. Non mi importava nulla se non divertirmi. Avevo un sacco di amichetti! Io, IO, piacevo alla gente!> disse lei.
Avevo lo sguardo fisso su di lei mentre parlava, osservavo ogni sua espressione mentre si accendeva una sigaretta...
<Fino a quando un giorno, inevitabilmente, ti svegli una mattina e , come se ti svegliassi da un sogno, non sai come e non sai perché, ti ritrovi adolescente e ti trascini a scuola e l'unico amico che hai, così da un giorno all'altro, è un banco.> continuò lei. 
Non capivo dove volesse andare a parare. Lei si voltò verso di me e notó la mia espressione interrogativa... 
<Hai presente quei banchi tutti rovinati pieni di scritte posti in fondo all'aula?> mi chiese. Io feci di no con la testa.
 <Come no? Dai!> sorrise. <Massi, quel banco riservato a te sfigato e reietto della classe dove i tuoi 'amichetti' per ridere tra di loro ti scarabocchiavano sopra parole tipo "cesso", "cretina", "ratto" "mongoloide"...>      Il suo sorriso si spense. Mi imbarazzai per la piega che stava prendendo la conversazione.
 Lei fece un pausa e continuó: <Ecco, li inizi a non fidarti più delle persone che hai accanto, anche quelle che magari ti vogliono bene davvero... 
ma allo stesso tempo, un meccanismo strano nel tuo cervello fa sì che nonostante scegli di non fidarti più, inizi comunque a credere a quel che ti dicono, soprattutto se si tratta di cose poco carine.
Non mi è mai importato cosa le persone pensassero di me...fino a quel giorno.
Sai? Quando tutte le persone si allontanano di colpo da te e rimani da solo, sempre, 
quando passi da avere un sacco di amici ed una compagnia per la quale sei disposto a fare qualsiasi cosa, a non avere nemmeno una compagna con la quale partecipare ad un progetto scolastico, e passi tutti i sabato sera a casa, alla fine inizi a pensare che il problema sei tu, che se tutti se ne vanno un motivo ci sarà... Inizi a non fare più conoscenza con nessuno, inizi a chiudere la bocca per non dire qualcosa che possa dare ad altri un motivo in più per pensare male di te. Passavo le mie giornate chiusa in camera mia. Nessuna notifica sul telefono. Nessuna amica da telefonare al pomeriggio o con cui andare a prendere un gelato. Nessuno, solo io e la mia rabbia. 
E allora ti metti lì, seduta, e pensi, pensi, pensi, e ripensi ancora... Ti dai mille colpe infondate, inutili, ti inizi a urlare in faccia allo specchio da sola "cesso!  Ratto schifoso!" o "mongoloide!"... E piano piano inizi a farti paura anche da sola...>
Abbassai lo sguardo...
Lei si sfilò per l'ultima volta la sigaretta di bocca e la gettò a terra sbuffando un piccola nuvoletta grigia, si mise comoda sul gradino appoggiando le braccia dietro di sé e disse: <Ero arrivata ad un punto in cui mi era impossibile sopportare una parola di troppo, un pensiero in più. Me lo ricordo bene quel pomeriggio! Erano le 15:00, ero frustrata dalla giornata, ero stanca. Decisi di ascoltare un po' di musica, con le cuffiette, volume al massimo, così alto che faticavo a sentire il mio stesso respiro... Non so di preciso che cosa successe, so solo che ho ballato un ora senza fermarmi. Ballavo e sudavo, ballavo e piangevo, ballavo ancora ed era come se sparissi, come se non era più necessario essere Me. È stata la prima volta che ho ballato per davvero.> 
<Quindi danzi per sfogarti, praticamente.> Conclusi io, imbarazzata.
Lei rispose:<No. Io danzo perché sono insoddisfatta di me stessa, perché ho ancora paura di quello che gli altri pensano di me...
Quando ballo è come se mi strappassi via la pelle di dosso, come se la mia vista si offuscasse e nelle mie orecchie non si sentissero più giudizi, è come se i miei pensieri sparissero. Quando danzo posso essere qualsiasi persona, qualsiasi animale, posso cambiere vita o decidere di rispecchiarne un'altra. Quando ballo divento tutto e niente nello stesso tempo.
La danza mi ha salvato. Io le devo la mia vita, non potrei mai abbandonarla...> mi guardo con gli occhi pieni di lacrime e infine mi disse: <Io danzo perché voglio potermi guardare un giorno,allo specchio di un camerino di un grande teatro, il giorno del mio più grande debutto e sentirmi finalmente un DIAMANTE.>

Loie Fuller

 Nata nel 1862 a Fullersburg nei pressi di Chicago, Loie Fuller, a vent’anni, lavora già come attrice (nel 1883 compie una tournée per gli Stati Uniti con la troupe di Buffalo Bill), esibendosi in una serie di pezzi di teatro da vaudeville. Nel 1889, a New York, decide, quasi per caso, di utilizzare durante uno spettacolo un’ ampia gonna di seta bianca per produrre effetti motori spettacolari, sottolineati da uno speciale tipo di luce colorata: «Il mio vestito era talmente lungo, che io vi camminavo continuamente sopra, e automaticamente sorreggevo la veste con entrambe le mani tenendo le braccia sollevate in aria, e in questo modo continuavo a volteggiare attorno alla scena come uno spirito alato. Qualcuno, dalla sala, lanciò un grido: una farfalla, una farfalla. Io cominciai a girare su me stessa correndo da un capo all’ altro della scena, e un secondo grido si levò dalla platea: un’orchidea». Da questo momento Loie Fuller decide di concentrare la sua ricerca sull’utilizzazione in senso spettacolare dei possibili effetti provocati da fonti complesse di luci colorate sui drappi di stoffa lunghi vari metri da lei indossati, opportunamente fatti volteggiare a suon di musica. È con tale procedimento che, nel 1891, la Fuller crea, con grande successo, la sua celebre, caleidoscopica Danse Serpentine.

danzatrice Loie Fuller

la ballerina Loie Fuller

Nel 1892 l’autodidatta sbarca in Europa e, dopo una tournée in Germania, viene accolta, a Parigi, da un trionfo senza precedenti. Le sue realizzazioni, intanto, diventano sempre più raffinate e seduttive: lavora sul trasformismo delle linee dinamiche e sui contrasti luce-ombra in rapporto al dinamismo fluido e cangiante della libera composizione di danza. Sperimenta l’adozione di fonti di luce collocate non soltanto in posizioni laterali, secondo le più diffuse convenzioni teatrali, ma situate sul palcoscenico direttamente sotto i suoi piedi (come nella Danse de feu). Giunge a collegare alle braccia bastoni che ne prolungano l’estensione, aste coperte di ampi drappeggi che le consentono di creare, nella fusione con luce e movimento, forme imprevedibili e fantastiche, secondo una concezione dello spettacolo di danza già del tutto anti-narrativa ed estranea a qualsiasi proposizione realistica. Le sue danze, sempre grandiosamente immaginifiche, e sempre rivolte a una proiezione trasfigurante dei ritmi e degli elementi della natura (Danse blanche, Danse fleur, Papillon, Nuages, Bon soir), la trasformano in uno dei simboli eletti dell’epoca del figurativismo floreale.

Isadora incontra la Fuller a Parigi nel 1902: decide di seguirla in una tournée europea, e anni dopo, nella sua autobiografia, scriverà di essere rimasta letteralmente affascinata dalle danze della Fuller, «che personificava i colori innumerevoli e le forme fluttuanti della libera fantasia. Quella straordinaria creatura diveniva fluida, diveniva luce, colore, fiamma, e finiva in una meravigliosa spirale di fuoco che si elevava alta, verso I’infinito». Sono gli stessi anni in cui Loie Fuller, che a Parigi danza alle Folies-Bergère, è l’idolo di artisti e intellettuali parigini: Toulouse- Lautrec la ritrae in un vortice di veli, Debussy e Mallarmé sono suoi ferventi ammiratori, Rodin la definisce una donna di genio, Alexandre Dumas figlio e Anatole France si dichiarano sedotti dal suo talento, e i coniugi Pierre e Marie Curie seguono appassionatamente ogni sua esibizione. Creatura inimitabile dell’ Art Nouveau, Loie Fuller, con la sua estetica interamente fondata sul rapporto articolato tra luce e danza, influenza fortemente gli sviluppi espressivi di molti dei suoi contemporanei: direttamente dalla Fuller, infatti, Isadora assume idee e stimoli creativi, mentre nella compagnia dei Ballets Russes di Diaghilev si adottano soluzioni d’illuminazione che dalla Fuller – dichiaratamente – traggono spunto.

Più volte la Fuller fa ritorno negli Stati Uniti (si esibisce a New York nel 1896, e nel 1910 a San Francisco), ma il suo pubblico più fervente resta quello europeo. L’architetto Henri Sauvage allestisce appositamente per lei un piccolo teatro all’Esposizione internazionale di Parigi del 1900, e in questo stesso teatro, nel 1906, Loie Fuller invita a esibirsi la sua compatriota Ruth St. Denis.

La Fuller appare per l’ultima volta sulla scena a Londra, nel 1927, in Shadow Ballet.

la ballerina Loie Fuller

la danzatrice Loie Fuller

Muore a Parigi nel 1928, senza lasciare in eredità ai suoi seguaci nessuna particolare tecnica corporea: soltanto una pratica illuminotecnica di estremo valore teatrale; una pratica che, negli anni successivi alla sua morte, continuerà a svilupparsi in senso multiplo e complesso, fino a sostituirsi progressivamente agli elementi scenografici. È soprattutto in questo senso che Loie Fuller va considerata un’ autentica pioniera della danza contemporanea: con lei, infatti, lo spettacolo di danza abolisce per la prima volta le scenografie decorative (la Fuller adotta esclusivamente fondali uniformi, e non esita a danzare anche al di fuori dei teatri, all’aperto, preferibilmente al chiaro di luna, col vento che le solleva le vesti). Ed è a partire dalla Fuller che si inaugura, nel teatro di danza, l’uso di proiettori di luce situati direttamente sul palcoscenico.

Sul piano della drammaturgia coreografica, poi, la sua capacità di isolare il movimento, scomponendolo in sezioni secondo gli effetti di illuminazione adottati, e attribuendo quindi autonomia di significato all’elemento dinamico di per sé, senza l’attribuzione di alcuna urgenza contenutistica o narrativa; è un’intuizione che precorre, con parecchi anni d’anticipo, molti degli sviluppi coreografici del Novecento.